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Yoga e trasformazione

Il termine Yoga negli anni ha assunto diversi significati, in base al contesto storico e sociale in cui è stato utilizzato.

Nel XXI secolo, la parola Yoga viene comunemente associata a concetti come benessere, salute, flessibilità, equilibrio, quiete, serenità, in altri termini, a qualcosa che sotto vari aspetti genera un cambiamento di stato positivo, portandoci dal caos all’ordine.

Nel libro “Nel nome dello Yoga” di Federico Squarcini e Luca Mori lo Yoga viene definito come “metodo” e più precisamente un metodo:

“che gli esseri umani hanno inventato per modificare le proprie possibilità di percepire, di conoscere e di agire”

Anche il noto storico delle religioni Jacobsen definisce lo Yoga come “metodo disciplinato per raggiungere un obiettivo” e come “Insieme di tecniche per il controllo del corpo e della mente”.

Potremmo dire che lo Yoga è una sorta di sistema, un qualche “metodo sistematico – per ottenere un risultato”, per dare una possibile risposta a diversi bisogni dell’essere umano, quali:

– il gestire e potenzialmente curare l’insofferenza al vivere;

– lo stare al mondo in maniera consapevole;

– la necessità di evolvere e di migliorarsi;

– il continuo cercare il senso della propria esistenza (nell’ambito di qualcosa di più grande che va al di là della vita ordinaria).

Già nel testo sigillo dello Yoga Classico (collocato nell’arco temporale del II sec. a.C. – IV sec. d.C.), quale lo “Yoga Sutra” di Patanjali (scritto tra il 325 e il 425 d.C), ritroviamo le tracce riassuntive di questo metodo chiamato Ashatan Yoga (lo yoga degli otto passi, delle otto membra), che prevede, per l’aspirante ricercatore, un percorso evolutivo attraverso una scala ascendente di atteggiamenti e attività, che partono con l’etica-morale (Yama-Niyama) per transitare attraverso l’uso del corpo (Asana), il dominio del respiro e dell’energia pranica (Pranayama), il ritiro dei sensi (Pratyahara), la concentrazione (Dharana), la meditazione (Dhyana) e la realizzazione del Sé (Samadhi).

Si tratta di un sistema che, sostanzialmente, lavora su diversi piani: quello fisico, quello psichico e quello energetico; in altri termini, coinvolge tutte le nostre componenti costitutive: organica, mentale, energetica.

Questo coinvolgimento dei tre costituenti pone lo Yoga su di un altro piano rispetto alle altre attività di tipo prettamente fisico, in quanto, diversamente dall’allenamento e dalla ginnastica, nello yoga deve esserci attenzione a ciò che si fa. Come diceva lo stesso Desikachar (figlio del fondatore dello Yoga moderno, quale Tirumalai Krishnamacharya 1888-1989) “nello Yoga diventiamo, allo stesso tempo l’osservatore e l’osservato”. Se manca tutto questo, se manca l’auto-osservazione, è difficile dire che stiamo praticando Yoga.

Lo Yoga trasforma il praticante (ce lo racconta lo Yoga Darshana, una delle sei principali scuole “filosofiche” dell’India), in quanto sistema che ha insito in sé il potere di “far cambiare” (di condurre da uno stato ad un altro) secondo tante direttrici diverse, comunque convergenti:

 

  1. ci cambia la visione, cambia proprio l’occhio con cui guardiamo, ci aiuta a vedere, a percepire le cose in modo diverso, come stanno realmente, cioè non più mediate dai sensi, né dal significato che vi dà la nostra mente, influenzata dalla memoria (smrti) (avidya-vidya);
  2. ci aiuta a transitare da stati di reazione a stati di azione, perché assimiliamo una posizione nei confronti del mondo di osservazione non partecipante, quindi di disinnesco delle continue e incessanti reazioni agli accadimenti;
  3. assumiamo un ruolo di primo piano nel tracciare la nostra esistenza, divenendo gli unici artefici della nostra vita;
  4. riconosciamo il nostro ruolo nel mondo, l’esistenza di un Dharma (di uno scopo universale di ogni essere in questo mondo), anche personale (Upa Dharma), e lo perseguiamo, realizzando il motivo-senso del “perché sono qui”, quindi dando un senso profondo alla nostra esistenza.

 

Potremmo citare il sutra “Yoga citta vrtti nirodha” (YS 1.2) come sintesi di quanto appena detto, cioè, nel momento in cui le vorticosità della mente cessano, otteniamo uno stato di visione che ci conduce a Yoga (unione, con qualcosa di più grade), evidenziando Yoga come vero e proprio percorso per l’Autorealizzazione (Chi io sono) e la Conoscenza del Sé (dove dovrei andare).

Quando pratico Yoga (nel senso dell’Asthanga Yoga di cui sopra) mi trasformo, fisicamente (ottengo un corpo più tonico, flessibile, resistente), mentalmente (maggiore capacità di concentrazione, riflessività, tranquillità, meno turbamenti dal mondo, distacco, compassione; vedo le cose con una prospettiva diversa e mi sento meno in balia del divenire di tutto quello che mi circonda; sento crescere in me maggiore sicurezza, ottimismo, affronto la vita con più “consapevolezza” e desidero condividere con gli altri, perché desidero l’unione, l’inclusione, il senso di appartenenza al Tutto. Il tappetino diventa il luogo-momento in cui avviene la trasformazione, ma che poi porto fuori, in ogni dove), energicamente (succede qualcosa dentro di me, lo percepisco ma non capisco cosa sia esattamente, tuttavia mi sento diverso/a, proiettato/a, verso altro. Un qualcosa d’altro di PIU’ GRANDE).

Potremmo dire che Yoga è un tornare finalmente a casa, verso il luogo da cui proveniamo e a cui apparteniamo.

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Alberto Campion

Nella sua vita attuale è un imprenditore nel campo dell'informatica e del digitale, un insegnante di Yoga e un ricercatore spirituale.
Dopo una laurea in Scienze Politiche, la sua esigenza di continue risposte e la passione per lo studio lo hanno portato ad approfondire la storia e il pensiero dello Yoga attraverso formazioni specifiche e un Master in Yoga Studies presso l'Università Ca' Foscari di Venezia.
Attualmente iscritto al corso in Scienze delle Religioni presso l'Università di Padova, tiene corsi e seminari su temi filosofici-storici dello Yoga e nello stesso tempo, convinto che "non è mai troppo tardi per" continua il suo eterno percorso "da allievo".

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